domenica 2 aprile 2017

Recensione: Blackgate di John McCornwell


Il vecchio Miles Ferguson viene avvicinato da un aspirante scrittore che vuole narrare una vicenda che lo ha visto protagonista tanti anni prima. Poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, Miles, reduce dallo sbarco in Normandia e distintosi per il suo coraggio in battaglia, fa il detective privato e, indagando su un omicidio, si trova invischiato in un qualcosa di grosso, un intrigo che coinvolge un senatore e vari esponenti della malavita, con scopi oscuri e terribili.
Un classico “hard-boiled” alla Chandler o alla Hammet, numi ai quali questo libro è sicuramente ispirato, che contiene tutti gli elementi classici, i pedinamenti, le scazzottate, i jazz club fumosi, le sparatorie, la femme fatale… ma con una fondamentale differenza: i protagonisti di questo romanzo sono morfi, metà uomini e metà animali, qui chiamati “pellicce”, in ossequio allo slang tipico del genere.
L’autore ha scelto di usare uno pseudonimo, “John McCornwell”, ma continua a costruire il suo particolare mondo narrativo, arricchendolo di tasselli, in questo caso accennando all’origine dei suoi tipici personaggi, risvegliati da fantomatici arcangeli, e introducendo una novità, i draghi, ben diversi dallo stereotipo fantasy classico.
L’elemento di continuità con i libri precedenti sono i nomi e certi aspetti del carattere dei protagonisti, Lilian e Miles, e un messaggio morale di fondo, il superamento e l’accettazione della diversità.
La scrittura di McCornwell segna ancora un progresso, risultando sempre più matura e sfaccettata, ho apprezzato anche la sua capacità di variare registro e stile in base al genere letterario scelto, qui poliziesco, in precedenza steam-punk o contemporaneo
I miei complimenti a un autore singolare e fuori dagli schemi.


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