Questo non è un libro sui Beatles, piuttosto è il racconto di una riconciliazione con il mito.
Tutti quelli della nostra generazione (io e Stefano siamo praticamente coetanei) sono beatlesiani, anche chi, come l’autore, per sua stessa ammissione, non lo è mai stato consapevolmente. Lo siamo di riflesso, nostro malgrado, per osmosi, perché la cultura, la società, anche nei sui aspetti più quotidiani e comuni, è stata influenzata e segnata per sempre da una stagione della quale i Fab Four sono il simbolo.
In un viaggio a Liverpool l’autore ripercorre le tappe fondamentali della genesi del quartetto: Strawberry Fields, Penny Lane, le loro case natali, l’ospedale dove nacque Lennon; una sorta di passeggiata della memoria in una periferia grigia e piovigginosa che odora di rispettosa leggenda.
Ogni libro non appartiene solo a chi l’ha scritto, diventa anche un po’ del lettore e io mi sono ritrovato nello stato d’animo di Stefano, in quello che racconta e in quello che evoca.
È una malinconia/nostalgia da personale album dei ricordi, cristallizzata in certe fotografie in bianco e nero con l’albero di natale e la scatola dei mattoncini Lego o delle gite domenicali dove tutto, dai vestiti al taglio dei capelli, riecheggia la beatlemania, nella psichedelia lisergica di Yellow Submarine, visto a sei-sette anni, come se fosse un qualsiasi altro cartone animato e invece era qualcosa di completamente diverso, nell’ascolto di melodie e parole, allora più incomprensibili e misteriose di oggi, che si sono sedimentate nel mio vissuto.
La forza dei Fab Four risiede in una trasversalità, nell’essere di culto e popolari, trasgressivi e rassicuranti, esoterici e di massa almeno quanto la loro musica, fuori dal tempo, moderna oggi come cinquant’anni fa; se c’è un classicismo nella musica pop è indubbiamente da ricercare nelle loro canzoni.
Un passo del libro è cruciale: i Beatles sono per sempre quei quattro ragazzi, la giovinezza, la loro e quella di un intero mondo, un’epoca in cui il futuro era intatto e carico di promesse, non importa tutto quello che è successo dopo, le incomprensioni e lo scioglimento, la delusione dei fans, la morte di Lennon e di Harrison, il tempo che passa, la vita vera fuori dai riflettori: rimane la loro immagine con le giacche e i cravattini neri, i capelli a caschetto, un’istantanea indelebile.
La narrazione spesso si concentra su Paul, forse perché della premiata ditta Lennon/McCartney è il solo ancora qui con noi, forse per affinità elettive, le quattro corde, intendo, forse per le ultime righe del libro: il Paul McCartney di oggi, in concerto che, per un momento, abbassa la guardia e ci rivela uno sguardo smarrito, quello di un ragazzo di periferia pieno di sogni, come se il successo, i soldi, la fama fossero ancora soltanto delle ipotesi di un futuro tutto da scrivere. C’è un cortocircuito con l’inizio del libro, la citazione di Yesterday, scritta da Paul a ventitré (ventitré!) anni. Yesterday, la più famosa e allo stesso tempo la più atipica canzone dei Beatles, parole e musica di pura nostalgia, rimpianto per un passato che non è solo quello del ragazzo di allora ma che appartiene a tutti noi, adulti di oggi.
A completare il racconto ci sono le belle fotografie di Enrica Lanzillotta, immagini di una Liverpool che sembra un museo della memoria.
Yesterday, all my troubles seemed so far away
Now it looks as though they're here to stay
Oh, I believe in yesterday
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