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La meta, per molti di loro, è Milano, fortificata e soggetta a un duro regime militare, dove si sta ricostruendo una civiltà industriale, con tutti i miraggi e le storture del passato.
Dopo un viaggio lungo e faticoso, costellato da atrocità, incontri e tradimenti, alle porte della città, in attesa di essere scelti per accedervi, i protagonisti vengono ammoniti da un reietto, evitato e additato da tutti come matto, a “non vendere il proprio cavallo migliore per un sacco di grano guasto”, metafora del barattare la libertà per una sicurezza da schiavi.
Si sa che in letteratura, e non solo, sono spesso le parole dei matti ad essere le più sagge: è proprio il lungo monologo di questo personaggio la parte migliore del romanzo, una riflessione sul senso della vita e della giustizia spietatamente lucida ma, purtroppo, destinata a rimanere inascoltata.
Giorgio Scerbanenco (Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko), scrittore di origine ucraina ma vissuto praticamente sempre in Italia, è molto noto per i suoi romanzi gialli e per il suo investigatore privato Duca Lamberti, non conoscevo questa sua vena distopica; ho trovato questo libro, scritto nel 1963, per niente datato, assolutamente degno di essere riscoperto.
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