Il cavallo venduto - Giorgio Scerbanenco
Un western post-apocalittico livido e violento, che anticipa certi romanzi del genere, primo fra tutti La strada di Cormac McCarthy: nell’Italia devastata da una catastrofe (probabilmente un conflitto nucleare) accaduta molti anni prima, un’umanità disperata e crudele, privata di ogni tipo di tecnologia, a parte le armi da fuoco, è divisa in comunità stabilite dove prima si trovavano le città, mentre le campagne sono percorse da pochi sbandati che vagano a piedi o su carri trainati da cavalli, l’unica legge riconosciuta è quella del più forte.
La meta, per molti di loro, è Milano, fortificata e soggetta a un duro regime militare, dove si sta ricostruendo una civiltà industriale, con tutti i miraggi e le storture del passato.
Dopo un viaggio lungo e faticoso, costellato da atrocità, incontri e tradimenti, alle porte della città, in attesa di essere scelti per accedervi, i protagonisti vengono ammoniti da un reietto, evitato e additato da tutti come matto, a “non vendere il proprio cavallo migliore per un sacco di grano guasto”, metafora del barattare la libertà per una sicurezza da schiavi.
Si sa che in letteratura, e non solo, sono spesso le parole dei matti ad essere le più sagge: è proprio il lungo monologo di questo personaggio la parte migliore del romanzo, una riflessione sul senso della vita e della giustizia spietatamente lucida ma, purtroppo, destinata a rimanere inascoltata.
Giorgio Scerbanenco (Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko), scrittore di origine ucraina ma vissuto praticamente sempre in Italia, è molto noto per i suoi romanzi gialli e per il suo investigatore privato Duca Lamberti, non conoscevo questa sua vena distopica; ho trovato questo libro, scritto nel 1963, per niente datato, assolutamente degno di essere riscoperto.